sabato 31 marzo 2012

D'annunzio e Pasolini

Istituto tecnico agrario Marcantonio Bentegodi, Verona, anno di grazia 1976. Esami di maturità. Tra i circa ottanta esaminandi ce n’erano anche di quelli che avevano completamente sbagliato indirizzo, favoriti dal fatto che l’accesso all’università era allora libero per tutti, senza obblighi specifici pregressi. Tra quelli, io.
Sulle tre sezioni di allora io ero nella B, quella soprannominata “fascista”, un po’ a torto e un po’ a ragione. In realtà solo un terzo degli studenti lo era, ma questo già faceva specie. Tra questi io.
Fascisti sui generis in realtà, con piuttosto l’animo degli antagonisti o l’esigenza del “fuori dal gregge”, ma bastava perché fossimo definiti tali. Avevamo poi un professore di letteratura (allora si chiamava “italiano”) che rosso proprio non era, anzi, aveva tendenze elitarie e completamente antitetiche in cui peraltro noi ci riconoscevamo. Insomma, ben prima di “carpe diem” lui fu il nostro “capitano mio capitano”! Forse questo più di quello ci fece passare per la classe più fascista della comunque sempre fascista, per definizione, chissà poi perché, sezione B. L’anno dei nostri esami, il millenovecentosettantasei, fu poi un anno al calor bianco in cui la nostra già triste nomea si lustrò di nuova e meritata infamia.
Il motivo fu semplice. All’inizio dell’anno ci fu la ormai solita occupazione studentesca della scuola. Senza motivo, o con pochi motivi, quasi ormai per abitudine, dopo che in tutti gli anni precedenti della mia frequentazione a quella scuola si era già verificata. Ora, già quando ti costringono a occupare una scuola senza una motivazione specifica e senza rischiare niente, nemmeno la contrarietà dei professori e la disapprovazione dei genitori, la gioia si muta in noia, ma se questo accade quando alla fine dell’anno tu hai gli esami, la noia diventa fastidio. E il fastidio richiede sollievo.
Per questo, al terzo giorno d’occupazione, forzammo il blocco dei cancelli d’entrata, entrando appunto e facendo lezione. O tentando di farla, dal momento che mancavano i professori, che a quel punto se n’erano già andati a casa. Il giorno successivo ri forzammo il blocco, stavolta d’accordo coi professori che ci fecero regolarmente lezione, e il giorno dopo ancora respingemmo l’attacco in forze degli occupanti, ben decisi a sbatterci fuori e riprendere il completo controllo della situazione. Fu una cosa piuttosto cruenta in cui qualcuno rischiò di volare dalla finestra del terzo piano, ma la posizione strategica della nostra aula ci permise di respingere l’assalto senza gravi perdite.
Galvanizzati, il giorno successivo organizzammo un contro picchetto all’entrata, e la gazzarra che si scatenò segno la fine anticipata dell’occupazione di quell’anno. In totale avevamo perso una settimana di lezioni invece che il solito mese. Ma fu una vittoria pagata cara, perché da allora fummo guardati a vista, apertamente disapprovati e minacciati e spesso accolti coi soliti cori di “fascisti, carogne, tornate nelle fogne”.
Solo che fascisti non eravamo. Io in particolare non lo ero, né lo sarei mai stato, perché il fascismo, per me, già allora, non era che il rovescio d’una medaglia che dall’altro lato recava scritto comunismo. Entrambi figli degeneri di un socialismo utopico e massimalista cui sono sempre stato allergico. Credo che, più altro, allora, io fossi un esteta, innamorato del mio stesso coraggio e del mio individualismo.
Comunque, per gli altri, ero ed eravamo fascisti. Fascisti a un esame di stato in cui il membro interno, il nostro professore d’italiano, era fascista. Ci fosse toccata una commissione “rossa” sarebbero stati guai. Infatti …
Non che non fossimo stati avvertiti. Anzi, il nostro “professore capitano” suonò per tempo la campana d’allarme, fornendoci consigli, istruzioni e ammonimenti e aumentando la razione di quotidiani e sempre più intensi “allenamenti”. Noi, però, non c’impressionammo più di tanto.
Forse perché adolescenti, forse perché convinti della fondamentale bontà dell’animo umano, ci demmo da fare per tranquillizzarlo. C’infastidiva, certo, il dover studiare più del dovuto per superare una commissione quasi certamente non benevola se non ostile, ma non ne eravamo più di tanto spaventati, anzi, casomai anche un poco inorgogliti. E soprattutto motivati.
Comunque, anche per spirito d’obbedienza, ci demmo da fare come non mai. Io e il mio compagno di banco, per esempio, ci rintanammo trenta giorni in eremitaggio in un paesino di montagna dove gli unici svaghi erano le nostre montagne (ma di libri) e un latte di malga appena munto di cui non avremmo mai più ritrovato l’eguale. Quando tornammo in città ci sfuggiva qualche muggito ma non avevamo paura di nessuno.
Solo quando finalmente arrivò il gran giorno, quello del primo scritto, capimmo la misura di quel che il nostro professore ci aveva paventato: una commissione che sembrava piuttosto un comitato del popolo di sinistra ispirazione, in senso figurato e no.
Il presidente sembrava Umberto Eco, o un gemello in carne ed ossa del “Bobo” di Sergio Staino, senza però l’autoironia. Un Bobo giovane, insomma, e ancora piuttosto cattivo. La vice era tal quale a Oriana Fallaci, solo un po’ meno bella, ma con uguale feroce cipiglio. Poi c’era un altro, più giovane con una gran barba rossa che sembrava Garibaldi ed uno che invece era la perfetta reincarnazione del più classico don Abbondio, con la stessa espressione timorosa e dolente. No, non eravamo messi bene.
Ma, come spesso accade quando il nemico è forte e minaccioso, la prestazione fu eccellente e il risultato andò oltre le aspettative. Di molto anche, tant’è che illuse un po’ tutti. Mai si era visto, né forse si vide più, un tale successo di classe. Non proletaria, d’accordo, ma pur sempre classe.
Il trucco c’era in realtà, ma ampiamente giustificato dalla criticità in cui ci eravamo trovati.
La strategia fu semplice e spudorata, la tattica pure. Quattro o cinque elementi “di punta” in posizione nevralgica con due e tre compagni “scarsi” a portata di braccio e la classica “quinta colonna”a nostro favore: il nostro membro interno. Feci tre temi, quel giorno, ovviamente cambiando titolo per non dar troppo nell’occhio, e un altro paio li riaggiustai a furia di correzioni, dando così il mio degno contributo alla nostra lotta di classe. L’unica per cui l’avrei mai dato. Così altri come me. Però un errore lo feci, quel giorno: quello di lasciare troppo pochi errori.
Il giorno successivo il vento era cambiato: posti assegnati in ordine alfabetico e fucili spianati col colpo in canna. Fu difficile perfino ottenere il permesso per andare in bagno. Ma a quel punto ognuno per sé ed io problemi non ne avevo. Correvo per il sessanta e portavo agli orali gli spauracchi di sempre, a memoria d’uomo, professore o studente: Italiano ed Estimo. In più avevo un asso nella manica, anzi due. Gabriele D’Annunzio e Pier Paolo Pasolini.
Credo di aver già detto che avevo sbagliato scuola, non forse che la mia avrebbe dovuto essere il liceo classico, come peraltro consigliatomi dai miei professori alle medie. E tra il liceo classico e un istituto tecnico c’è una bella differenza. Oggi come allora. Solo che io volevo avere un diploma, prima di pensare se avrei potuto, e voluto, in seguito, continuare gli studi. Il che sarebbe potuto succedere solo se avessi avuto un ottimo rendimento e magari anche una borsa di studio, visto che in famiglia non ce la passavamo poi benissimo.
Ma le passioni non muoiono per questo, anzi casomai si rinforzano, e dunque la letteratura è sempre rimasta la mia materia. E la poesia la mia passione. Divorati stilnovisti, neoclassici e chansonnier medievalisti, ero approdato ai cosiddetti poeti moderni, che allora erano quelli del novecento. E i miei preferiti, rigorosamente dissimulati per un insieme di motivi, erano appunto D’annunzio e Pasolini.
Fu così che, quando decisi che cosa preparare, come mio cavallo di battaglia per gli esami, avevo sul comodino l’”Alcyone” del Gabriele nazionale e “Le ceneri di Gramsci” di quel Pier Paolo che avevo scoperto quasi per caso su una bancarella di libri usati, e che mi sembrava impossibile potesse essere lo stesso di quei film in romanesco che allora tanto andavano di moda e io inveve aborrivo. E non si dica che non stavano bene insieme, D’Annunzio e Pasolini, perché intanto allora non li capivo forse fino in fondo, non come potrei fare adesso almeno, e poi perché sono sempre stato attratto dagli estremi. E quei due lo erano, eccome se lo erano!   
In questi due poeti io identificavo il novecento e le sue contrapposizioni: due ideologie dominanti, alternative e pur somiglianti, per me almeno, due modi intendere la vita del tutto diversi ma protagonisti fino al midollo, e due modi di intendere (e vivere) l’arte variegati e compositi come pochi altri. L’uno col suo “despota andammo e combattemmo” e l’altro col suo “non è di maggio questa impura aria” m’affascinavano al punto tale che, a volte, rileggevo alcuni loro versi decine e decine o anche centinaia di volte, trovando sempre nuovi stimoli e nuove emozioni. Senza che nessuno dei miei amici lo sapesse, che allora c’era quasi da passar per finocchi, la “sera fiesolana”,  “lungo l’affrico notturno” e i “quadri friulani” erano diventati il mio breviario segreto.
Non mi sembrava quindi vero di poter usare per l’esame qualcosa che era una passione, invece che un tedio. E non sentii ragioni, neanche quella del mio “capitano” che mi scongiurava di lasciar perdere almeno D’Annunzio, visto il colore politico della commissione. Niente. Anzi, io avrei usato proprio Gabriele per spiegare parte del sentimento nazionale post prima guerra mondiale, e Pier Paolo per spiegare quello post seconda. E avrei così anche sfangato allegramente un po’ di storia, cosa che non era per niente male. E così andai, novello don Chisciotte, incontro ai miei mulini a vento.
Mi ritrovai di fronte alla commissione come ultimo della lista, visto il cognome che cominciava con la zeta. Pensavo, o magari speravo, che per questo i professori sarebbero stati stanchi e desiderosi di concludere in fretta, visto che prima di me ci avevano dato dentro mica male, anche se senza infierire come ci si sarebbe potuti aspettare. Ma mi sbagliavo.
Come entrai ebbi la strana sensazione che mi stessero aspettando, e nel pensare a questo, mentre salutavo, aprii il libro dal lato sbagliato. Il libro era capovolto e il mio furbesco gesto di noncurante apertura aveva prodotto un effetto indesiderato: l’apparizione di disegnini incredibilmente inopportuni: un fascio littorio e due teschi con sotto un “a noi” e un “boia chi molla” che francamente avrei sperato fossero molto meno visibili, in quell’assurdo momento.
A tale vista Umberto Bobo rimase interdetto, non però abbastanza da non chiedere, francamente sorpreso, se quel libro fosse mio oppure no. Bene, se ci sono momenti in cui un’esitazione cambia la vita, quello ne fu la dimostrazione lampante. Improvvidamente risposi che si, il libro era mio. Ed era falso e anche vero. Falso perché il libro non era mio ma del mio compagno di banco, vero perché i disegnini erano miei. Glieli avevo infatti appioppati io mentre, durante l’anno,  lui era vicino alla cattedra per qualche interrogazione, come facevamo spesso reciprocamente, così, tanto per vincere la noia. Poi, dal momento che il mio libro era molto più indecente del suo, avevamo optato entrambi per l’uso del suo. Ovviamente il suo turno era venuto il giorno prima e non c’era stato alcun problema. Io invece avevo toccato i fili scoperti della corrente.
«Si. È mio.» ammisi arrossendo e firmando la mia condanna. E l’espressione di disgusto che lessi sul volto di Umberto Bobo ne fu la conferma. Da quel momento andai in confusione, peggiorando ulteriormente le cose.
Cominciai a non sentirmi più sicuro nemmeno di quello che conoscevo meglio, rispondendo spesso in maniera esitante e fuori tema, mentre Umberto Bobo non fece nulla per togliermi d’impaccio ed anzi continuava a confutare puntigliosamente ogni mia asserzione o imprecisa spiegazione. Quando, dopo un po’, cominciavo comunque a riprendermi, entrò in gioco anche la terribile Oriana e per me fu la fine. Bastò che lei mi facesse, obliquamente ma neanche tanto, capire che voleva la stroncatura artistica di D’annunzio e la beatificazione anche morale di Pasolini, che io la feci ancora fuori dal vaso. «Non posso – le risposi automaticamente – proprio non posso, perché non sono assolutamente d’accordo.»
Ma anche loro non furono d’accordo sul fatto che le mi tesi e argomentazioni fossero nel giusto ed esposte in maniera corretta, e mi liquidarono con un unico sorriso di compatimento e la bruciante sferzata di un «Lei è molto meno preparato di quel che crede.»
Il mio professore d’italiano, sbigottito per come si era messa la situazione, proprio all’ultimo momento, aveva provato varie volte a intervenire a mio favore, ottenendo sempre l’effetto contrario. E alla fine si era zittito.
Quando finì la tortura dei primi due esaminatori mi ritrovai di fronte Garibaldi e don Abbondio per le materie tecniche, e cercai di raddrizzare la situazione, ma ormai la frittata era fatta e finii solo coll’allargarla ancora di più. Risposi meccanicamente alle domande con la testa ancora rivolta al disastro di prima e ne combinai un secondo.
Uscii dall’aula intontito come avessi avuto la febbre a quaranta, faticando perfino a comprendere quello che compagni e amici mi dicevano per consolarmi. Partito per il sessanta, e a punteggio pieno dopo gli scritti, fui licenziato con un trentanove che ancora adesso mi brucia come se l’avessi appena preso. E che fu la pietra tombale di ogni mia già scarsa ambizione universitaria. In compenso tutti, e dico tutti, quelli a cui io avevo fatto o corretto la prova d’italiano, furono licenziati con medie anche molto superiori alla mia.
La presi male, molto male, con tutti indistintamente, a partire da me stesso in primis, per finire all’intero sistema scolastico e socio politico italiano. Ma più di tutti me la presi forse con chi non centrava veramente nulla: i due autori, che avevo allora sul comodino e che fino a quel momento avevo amato tanto. “Alcione” e “Le ceneri di Gramsci” finirono sullo scaffale più alto della mia libreria insieme a tutti gli altri libri di poesia che avevo fin lì acquistato ai mercatini dell’usato, man mano che se n’era presentata l’occasione. E là restarono per più di vent’anni, insieme alla mia vecchia passione per la poesia.

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