racconti


 
Come nasce e muore una passione

La prima volta fu per caso, senza averci mai pensato prima. Una croce su un quesito d'un test della visita di leva, alla caserma Martini, e quel che ne conseguì fa parte di un'altra storia, ormai. Anzi, di un'altra vita: la mia prima. La seconda non fu un caso e non fece parte ne della prima ne della mia seconda vita, ma della terza. L'attuale. Solo di striscio riguardò, anzi, riprese un po' la prima. Diciamo nell'ispirazione. E qui devo fare un passo indietro.
Come nasce una passione? Da un'idea, in primis, una voglia o poco più, che però, invece di andare e venire, resta. E un po' alla volta diventa un'esigenza e poi un progetto. Di solito con me funziona così. Ed ha un inizio e una fine, se è vero che una volta scrissi "passioni transitorie e intermittenti / non funzionali ai loro stessi fini" distico che mi definisce più di mille altre parole. Questa passione durò sei anni, mese più mese meno, ed eran passati circa vent'anni da quella prima croce che invece mi catapultò, nel lontano 1977, alla Scuola Militare di Paracadutismo di Pisa e alla caserma Vannucci di Livorno dopo. Nel frattempo non c'era più stata nessuna attività specifica, o collegata, né interessamento. La naja fu un capitolo chiuso col congedo e riposto in un angolo oscuro della mente assieme ad altri ricordi della mia prima vita.
Questo almeno fino a una telefonata di un mio collega di lavoro, alpino paracadutista nellanno successivo al mio, che mi proponeva, anzi ci proponeva, a me a mio cognato, paracadutista pure lui, anche se carabiniere però, e due anni dopo di me, una rentreè. Andata e ritorno alla festa annuale della Folgore a Pisa e Livorno. In un primo momento declinai, perché sono sempre stato immune alle rivisitazioni nostalgico - goliardiche. Per me quando una porta è chiusa è chiusa. Difficilmente la riapro per riguardarci dentro. E quella tale era: chiusa ormai per sempre. E invece vi andai, più che altro per non rovinar loro la festa e fare il viaggio almeno in tre, e poi anche perché ero il trait dunion, visto che, tra di loro, si conoscevano appena.
Fu un viaggio tranquillo: andata dalla Cisa e giù per la Versilia fino a Pisa e Livorno, ritorno dall'Abetone via Firenze e Bologna senza particolari problemi di traffico, visto anche il periodo di fine ottobre. Visita alla caserma, parate, lanci, capatina allo spaccio, qualche distintivo ricordo e poi pranzo alla mensa della caserma, quattro passi in centro e ritorno. Revival puro e nudo, senza troppo trasporto, per tre che in fondo nemmeno eran stati commilitoni veri. Unica cosa in comune, la SMIPAR per tutti e la caserma Vannucci per me e mio cognato, per il resto corpi diversi e annate diverse: paracadutisti io nel 77, alpini il mio collega nel 78 e carabinieri mio cognato nel 79. Gente ritrovata poca, riconosciuta ancora meno, atmosfera generale un po' dimessa. Niente di che.
Di quel viaggio a tre mi ricordo due cose. Il lancio dimostrativo con atterraggio ai piedi del monumento della caserma, e le facce dei giovani commilitoni sotto le armi in quel momento. C'era qualcosa di diverso, qualcosa di speciale che non riuscivo a definire adeguatamente. Ci pensai su e alla fine decisi che erano le espressioni dei volti e un certo tipo di atteggiamento comune. Che peraltro non mi erano mai stati del tutto simpatici, ne luno ne gli altri. Credo che sia perché ai paracadutisti non basta aver coraggio, il coraggio di fare qualcosa, in fondo contro natura, che nessun sano di mente farebbe, come saltare da un aereo in volo. Eh no, bisogna anche dimostrarlo quel coraggio, e soprattutto a terra, quando si è in mezzo alla gente comune, che invece non ce l'ha! E lo chiama incoscienza.
Quindi, il parà, che cosa fa? Ti guarda dall'alto in basso! Sempre, comunque, anche quando sei più alto di lui di una spanna. Perché tu sei un misero mortale, mica un semidio capace di sfidare la morte per puro divertimento o quasi, come lui, come loro, come noi. E non c'è niente da fare. Puoi dirgli che tu sei Paperon de paperoni o il gran sultano in persona ma lui penserà sempre, dentro di sé, di esser meglio di te.
Ed è vero che rischiano la morte, eh, non lasciatevi fuorviare dalle statistiche che dimostrano qui, dimostrano là e stabiliscono che. Non è vero. Non ci sono cazzi. Si salta da 400 metri, con una fune di vincolo che apre il paracadute automaticamente, quello dietro, e la mano destra appoggiata alla maniglia del paracadute d'emergenza, sul davanti, nel caso il primo si apra male o non si apra affatto. Ma se questo succede, sei morto. Due volte su tre, tre volte su quattro. Anzi, secondo me, nove su dieci.
Quattrocento metri sono niente, cinque, sei sette secondi d'accelerazione e quando questa è finita sei già a terra. Anzi, in un bel buco per terra. Se ti va bene, se no è peggio. Puoi atterrare così male, per esempio sopra un albero, un lampione, sui fili della corrente o che altro ne so, e farti così male che preferiresti esser morto. Se sei scentrato dalla zona di lancio, per esempio, non puoi fare niente. Il paracadute è tondo e la direzionalità limitatissima. Sei semplicemente nei guai. E non è che da quattrocento metri non si possa mancare la zona, peraltro lunga un chilometro o più: è capitato anche a me quando il primo della mia fila simpuntò e non volle più saltare. Il tempo di tirarlo da parte e liberarlo dal vincolo e, quando siamo saltati noi, eravamo giù sull'autostrada. Io appena fuori ma già oltre la recinzione, quelli dopo di me in piena carreggiata. Non è successo niente, parte della gente era ferma per godersi lo spettacolo ed altri procedevano a bassa velocità, ma non è stato piacevole lo stesso.
E non è stata l'unica volta in cui ho rischiato la pelle: al terzo lancio di brevetto militare, quello col contenitore C appeso sotto come una mortadella di trenta chili, sono finito a lato della zona di lancio in mezzo a un frutteto di mele, tirando giù un ramo grosso come un braccio e ritrovandomelo sotto il sedere senza farmi niente. Ma un metro più in là c'era il tronco, e, sempre lì attorno, altre centinaia e centinaia di tronchi, e poteva andare ben diversamente. Insomma si rischia la vita davvero. E il parà lo sa. E questo fa la differenza. Una differenza che a me non è mai piaciuta. Tuttavia, quel giorno ormai lontano, tornando verso casa in macchina con gli altri due, io dissi: «ricomincio a saltare». E cominciò la passione vera.
Si, d'accordo, i parà sono gradassi, forse anche un po' stronzetti, ma a me che m'importava? Anzi, un motivo in più, per dimostrare che non proprio tutti lo erano. Non che io non fossi vanesio eh, lo ero e lo sono, eccome, ma non mi piace dare spettacolo delle mie passioni. L'ho già detto, non sono un esibizionista.
Primo, non m'è mai importato niente di diventare "troppo" bravo, né m'importa tuttora. Secondo: fisico, età e malizia erano già allora al di là di ogni tentazione. Faccio del mio meglio per non ingrassare, ma sono comunque quasi sempre 5-10 anche 15 kg oltre il mio peso forma, e non c'è verso, ormai l'ho capito. Tuttavia non sono poi così male e soprattutto non demordo. Solo che, una volta deciso ... non sapevo da dove incominciare. O, meglio, da dove ricominciare. Quando sei fuori da un'attività o da un giro, infatti, è come se quel giro, per te, non esistesse. Non c'è, non lo vedi, forse proprio perché non t'interessa. Un'attività come quella, poi, di per sé già naturalmente elitaria e pure costosa, peggio ancora! Ma io sono di Verona, e a Verona, pur piccola e ruvida, non manca niente. Men che mai un aeroporto civile con un rinomatissimo centro di paracadutismo (e volo a vela). Tra l'altro pure con un nome bellissimo: Boscomantico. Come si fa a resistere a un nome così?
Solo che sembrava il posto più dimenticato del mondo, in quel febbraio 1996 di cui sto narrando. Oggi molto meno, ma allora, se ci andavi negli orari di chiusura, sembrava addirittura abbandonato. C'era una casupola di legno con imposte sempre chiuse vicino ad un capannoncino con su scritto "Scuola Veronese di Paracadutismo", così, con tre maiuscole, sopra un cartello arrugginito. Poco altro. Oltre le reti, gli hangar dell'aeroporto militare, ormai dismesso da molto, dall'altra parte gli hangar di quello civile, con bar ristorante annesso, anche quello quasi sempre chiuso.
Il fatto è che ci passavo nelle ore sbagliate, durante i giorni di lavoro, quando riuscivo a inserirlo in uno dei miei complicati giri di visite e ispezioni. Ed ogni volta mi sembrava un presagio dissuasivo. Un po' come se il centro, chiuso e abbandonato mi dicesse: «Lascia stare, di cosa vai in cerca? Il passato è passato». Al che mi rispondevo, parlando tra me e me «Già, e tra laltro sono anche sposato, per la seconda volta tra l'altro, ed ho un figlio piccolo, un'altra figlia "di primo letto" (che però vive con me e di me ha bisogno) e un lavoro che più in bilico di così non si può ... mi serviranno mica altre menate, no?» Infatti alla fine entrai. Nel bar, nel centro e nel paracadutismo, quello vero, civile e sportivo, che è sempre pericoloso, vero, ma molto più divertente e meglio organizzato. Quasi in sicurezza direi, se non fosse che l'incidente è sempre comunque in agguato, quasi sempre figlio di un eccessivo azzardo, e più frequente di quel che son disposti ad ammettere i responsabili dei vari centri.
Ricominciai da zero, col metodo vecchia scuola, come un vecchio parà militare poteva e doveva fare. Niente lanci in tandem per me, che cerano anche allora, né corsi accelerati AFF (accelerate free fall) con due Jump master che si lanciano con te accompagnandoti in discesa libera come un pupazzo del Muppet Show, ma corso teorico e tutta la vecchia trafila: lanci vincolati, poi apertura comandata e infine, gradualmente e adrenalinicamente, la tanto agognata e temuta discesa libera. Ritrovai così una mia vecchia amica: la paura.

Contrariamente a quello che si pensa, infatti, il paracadutista, almeno quello che non è anormale o super esperto, vive di paura. O meglio, dell'adrenalina che accumula e scarica durante il lancio. E della soddisfazione, o gioia pura, che ne deriva. Avete presente la quiete dopo la tempesta? Moltiplicatela per cento, per mille e avrete l'idea! Chi non ha paura mente o non è normale. E allora, in ogni caso, è pericoloso. Non dura e non fa durare gli altri. La paura è indispensabile, perché, anche dopo centinaia di lanci, ti fa fare le cose per bene, sia nei ripiegamenti che nei controlli, che col tempo diventano sempre più automatici e noiosi, e infine nell'esecuzione dei lanci veri  e propri. Poi, col tempo, scema, sostituita dalla preoccupazione e infine dalla concentrazione, ma non deve mai mancare del tutto, perché, una volta saltati dall'aereo, ciò che è fatto è fatto. E qualsiasi errore si paga caro, molto caro.
Io ho avuto paura almeno fino ai trenta, quaranta, cinquanta lanci. E in crescere, mica in calare, perché più si va avanti e più ci si rende conto di quante cose potrebbero effettivamente andare male senza che ci sia più la molla dellorgoglio a spingerci come prima. Anzi, più si va avanti e più scema la visione avventurosa e romantica dei primi lanci, per lasciare il posto ad una più tecnica e disincantata la quale acuisce, e di molto, la percezione dei punti critici e dei veri pericoli. Che per altro costituiscono lessenza di questo sport. In pratica, prima si ha paura di sbagliare l'uscita e aggrovigliarsi nella fune di vincolo, poi, quando la fune non c'è più, si ha paura di non trovar subito la maniglia e perdere la posizione, col rischio di aprire magari allincontrario o a testa in giù. Infine, quando ormai è digerita la paura dellapertura comandata, perché bisogna imparare a non aprire. E la paura, a quel punto, è ancora più forte.
Ricapitolo per i meno esperti. Porta aperta, seduti a gambe fuori, mano interna che spinge e subito va a prender laria per evitare torsioni sullasse, e, appena dopo, il movimento sincrono che permette lapertura del paracadute senza che avvengano torsioni, sempre sullasse: mano destra alla maniglia mentre la sinistra rientra a bilanciare laria (si viaggia comunque a più di cento allora). E una volta tirata la maniglia, senza mollarla, si attende un secondo o due e poi, dopo lo shock dapertura, si controlla che tutto sia a posto, e finalmente si respira! Ci si ritrova attaccati a quattro bretelle (e due soli cosciali) a mille metri da terra, millecinque per i non esperti, ma almeno si respira!
Ma se vuoi far la discesa libera non devi aprire! Il che vuol dire innanzitutto che, dopo, lapertura, la dovrai fare a duecento allora invece che ai cento – centoventi, e che la terra sarà molto, molto più vicina. E cominci a pensare e se non riesco a tener la posizione?” “e se non riesco a trovare la maniglia?. In fin dei conti, finché uno non lha fatta, mica lo sa che cosè la discesa libera! Uno sa solo che, se mette fuori una mano dal finestrino di unauto che viaggia a duecento allora, il vento gliela porta via. E quindi quindi non gli rimane che farsi forza e pensare che se anche gli altri ce lhanno fatta vuol dire che anche lui ce la può fare. E però subito dopo pensa si va beh, però ai duecento allora sai che botto quando arrivo a terra? Quindi non è del tutto semplice saltare e impedire alla mano di andare ad aprire. Anzi, da più tempo si fa lapertura comandata immediata e peggio è.
Oggi si prende un tranquillante, ci si attacca ai moschettoni di un istruttore e via, di colpo in caduta libera per un minuto intero. Così, senza aver mai fatto niente prima. Basta un certificato medico e duecento euro (con altri trenta ti fanno anche le foto e il video) e uno sa già tutto. Non impara un cavolo, d'accordo, ma intanto sa cos'è la caduta libera. Io allora non lo sapevo. E per impararlo ho rischiato del mio. Come tutti quelli prima di me. Come tutti quelli che io chiamo parà veri.
Per ognuno di quei lanci, e in seguito pure, anche se sempre meno, io ho avuto paura. Paura di tutto, paura di qualsiasi cosa. Paura di me, degli altri, della sfiga. Ed è stato bello. Solo che non è durato.
L'apprendimento è infatti una cosa appagante. Ci sono momenti in cui direi che è il sale della vita. Se però sbagli e ce ne metti troppo viene una schifezza e rovini tutto. Se ho reso l'idea, bene, se no pensate pure alla trita e ritrita frase "fare il passo più lungo della gamba". Insomma, lapprendimento deve essere graduale, senza mai farsi prendere dalla fretta d'imparare. Se però uno ha quasi quarant'anni e nuota in mezzo a pischelli di diciotto - venti la cosa diventa subito in salita. E questa era appunto la mia situazione. In realtà cerano vantaggi (pochi) e svantaggi (tanti, troppi). Lunico vantaggio direi anzi che era la capacità raziocinante, che in realtà era anche un problema e non da poco, mentre gli svantaggi erano tutti gli altri: dai tempi di reazione alla capacità dapprendimento basata quasi tutta sullistinto. Listinto, se non lo fai da giovane non lo fai più, oppure ti serve il quintuplo del tempo e non riesce bene uguale. Altrimenti non si chiamerebbe istinto.
Eppure ce lho fatta lo stesso, alla tenera età di trentotto anni. No, non a completare il percorso daddestramento, ma ad andare ben oltre, anche oltre la semplice attività amatoriale di base. Quasi allattività dimostrativa ed agonistica. E al volo relativo in grandi gruppi. Come? Ma è chiaro, dandoci dentro come un matto e usando lasso nella manica che i pischelli in genere non potevano avere: una disponibilità finanziaria di un certo livello. Il primo anno feci infatti centoventi lanci. Il che, contando i fine settimana di cattivo tempo e quelli in cui ero impegnato altrove, fanno una media mica da ridere. E una spesa altrettanto importante. Credo che fra lanci, paracadute, tute e ammennicoli vari avrò speso dieci o dodici milioni di lire dellepoca. Forse otto o dieci mila euro di oggi.
Ed ero sempre col naso a pelo d'acqua. Tentavo cose che erano sempre al mio limite e anche oltre. Ricevetti anche delle lavate di capo imbarazzanti dai responsabili del centro, ma feci, come si diceva allora,  una progressione spettacolare. Alla fine del primo anno ero già inserito in una formazione che saltava a quattro, unico nel mio corso, ma quel che ho rischiato lo so solo io. E lo dico solo adesso.
Non mi bastava mai. Non volevo rimanere indietro a nessun costo. Imparai a "fare il punto" ancora prima d'arrivare al volo relativo, tanto per fare un esempio. Fare il punto, nell'epoca precedente il "gps", voleva dire stare inginocchiati alla porta, guardare giù e dare indicazioni al pilota per raggiungere il punto adatto per saltare. Sembra facile, ma non lo è, perché intanto il punto non è in verticale, ma in genere più avanti o più indietro o anche laterale, a seconda del vento che cè a terra ed in quota. E poi  l'aereo non è in orizzontale, ma in salita, quindi non perpendicolare. Insomma, una cosuccia che richiedeva una certa esperienza e in genere fatta da un istruttore o da un jump master, perché saltare fuori zona vuol dire guai sicuri, specialmente se a bordo hai allievi anziché esperti. Ecco, magari in questo sono stato favorito dalletà, ma nella discesa libera assolutamente no.
Nella discesa libera il segreto è il rilassamento, oltre che nella posizione, e qui cominciavano i miei guai. Più ragioni, infatti, e peggio è. Se sei teso ondeggi, sbatacchi, ti sposti da tutte le parti, e volare in relativo è impossibile. Daltra parte, essere rilassati mentre si viaggia a duecento allora verso un impatto con la dura terra, non è proprio facilissimo. Bisogna dimenticare quel che si sta facendo e concentrarsi sul modo e sui particolari. E in questo la giovane età aiuta molto. Mi ci volle perciò molta più pazienza e applicazione, ma poi le soddisfazioni non mancarono.
Un problema non indifferente furono invece le mie fluttuazioni di peso, che influivano pesantemente sul mio rateo di discesa. Ma anche qui usai lo stesso sistema: comprai due tute, una lenta e una veloce e infine una con una specie di sistema ad ali di pipistrello che mi permetteva addirittura di cambiare rateo in volo. Insomma, non mi feci mancare niente e niente trascurai, con notevoli progressi e memorabili soddisfazioni, almeno fino a che durò la progressione.
Quando invece i lanci diventarono routine, con sedute di preparazione lunghe e noiose (bisognava infatti studiare a terra, su speciali carrelli, a pancia in giù, tutti i movimenti e le figure che si sarebbero poi fatte in volo, poiché bastava un solo errore di qualcuno e tutto il lancio andava "buttato via") sedute che comportavano ripetizioni su ripetizioni e che a me facevano solo venire il sangue al naso, cominciai a manifestare i primi segni di insofferenza.
Non era più divertimento, a quel punto, ma un meccanismo che doveva girare a perfezione e basta. E io la rotella dellingranaggio facevo fatica a farla, allora come sempre. Mi sforzavo certo, e molto anche, ma mi sentivo in gabbia. Quando poi qualcuno sbagliava qualcosa, apriti cielo, musi lunghi, sguardi torvi e insofferenza a mille! E in effetti un bel po di ragione cera: un lancio a nove costava trecentosessantamila lire e anche due o tre ore di tempo, e bastava lerrore di uno solo a mandare a monte tutto.
Decisi che non faceva per me e cercai altre strade. Saltai a due, a tre, a quattro al massimo oppure da solo in stile libero, strade che durarono quel che durarono senza mai farmi impazzire, ma la verità era che, come in tutte i giochi del mondo, se c'erano amici simpatici ci si divertiva, altrimenti no.
L'aereo, le nuvole, il cielo, la bellezza dei panorami, le vertigini dei primi lanci, quando ti ritrovavi appeso a millecinquecento metri d'altezza, non c'erano più. Restavano le attese infinite, i ripiegamenti noiosi e le incomprensioni coi responsabili del centro. Nascevano invidie e gelosie tra noi e si faceva sentire la noia di andare, alla fine dei conti, a fare sempre la stessa cosa, nello stesso posto e nello stesso modo.
Evadevamo ogni volta che potevamo: Ravenna, Montagnana, Campodipietra, Legnago, Brescia, Bolzano e perfino un paio di manifestazioni di paese, dove tra l'altro non mi piaceva molto andare per via dei pericoli e della gente, ma alla fine sempre lì si tornava. Sempre la stessa cosa si faceva con sempre meno gusto e soddisfazione. E cominciai a capire che, forse, non era il mio genere. Tentai col volo relativo a vela aperta, tentai coi video accompagnando i tandem, ma ormai era tardi: la noia era più della gioia. Quando mi accorsi, mentre ero nella pancia di un "Casa", un bimotore stranissimo che pare una scatola di biscotti con le ali (da dove saltavamo per un lancio relativo a sedici), mi accorsi, dicevo, che avevo dimenticato le figure perché pensavo ai miei problemi di lavoro, capii che non sarei durato.
Ebbi anche un'emergenza, dovuta, lo confesso, a un'apertura mentre ero ancora in fase di deriva, cioè senza previo rallentamento, e anche, probabilmente, allo slider (rallentatore dapertura) lasciato in basso durante il ripiegamento. Errori di distrazione entrambi. Il risultato fu un botto micidiale, con sbrego della vela principale e trancio netto delle due bretelle di sinistra. Risultato: calotta a fiamma, sgancio ed apertura della vela d'emergenza. Non ebbi paura e feci tutto come da manuale, compreso l'atterraggio nell'area piccola vicino allhangar, che mi procurò un inaspettato rimbrotto da parte dei responsabili del centro. E ci rimisi la vela rivelatasi in aggiustabile. Ma il fatto più grave era che, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare assolutamente nulla dellultimo ripiegamento, quello incriminato. Mi accorsi allora che, in effetti, era un periodo in cui ero svogliato e indolente, e lo ero anche durante i ripiegamenti. Ero sceso sotto il livello di sicurezza.
Così cominciai a saltare sempre più di rado e sempre più da solo, nonostante la vela nuova che mi dava belle soddisfazioni, ma ormai non più sufficienti. Non cera più ladrenalina e neanche la magia conseguente. Inoltre i responsabili del centro mi diventavano sempre più antipatici e forse la cosa era reciproca. Vendetti l'attrezzatura e ci comprai la moto: erano trascorsi sei anni e quattrocentosettanta lanci.
Andò come va quasi sempre: perduta labitudine mi ritornò la voglia e per qualche anno soffrii quasi dastinenza. Ma quando una porta è chiusa è chiusa, e riaprirla è solo una minestra riscaldata, per cui non recedetti. A momenti, quando prendevo laereo per lavoro, avrei dato chissà cosa per poter riavere un paracadute e saltare fuori in mezzo a quelle nuvole che conoscevo così bene. Anche perché, di tutti quegli anni di attività, mi è rimasta lavversione, e forse la paura, per una delle due fasi veramente pericolose del volo in aereo: latterraggio. Laltra è la partenza, di cui però non si può fare a meno, ma latterraggio era quella che avevo sempre evitato. Mai una sola volta ci avevo atterrato, una volta partito. E per tutti gli altri guai che possono succedere in volo cera sempre il paracadute.
Ad oggi sono circa dieci anni che smesso e non me ne pento. Certo, ogni volta che vedo il cartello con su scritto Boscomantico, punto gli occhi al cielo in cerca delle vele. E la domenica mattina, dal cortile di casa mia, sento perfettamente il Pilatus del centro che porta in cielo i miei vecchi amici. Ma io non soffro più: «Addio amici miei, e buoni lanci a voi!»


Il lavoro nell'età scolastica

Quando andavo a scuola ho quasi sempre anche lavorato. Sia d'estate che, a volte, anche durante lo stesso inverno. Perfino quando avevo dieci o undici anni.
Tutto cominciò quando scoprii, dopo gli esami di quinta elementare, che non avrei avuto compiti da fare durante tutta l’estate. Ricordo ne parlai a tavola e mio padre buttò lì una frase sibillina sul fatto che un certo mio cugino di campagna che aveva la mia stessa età, lavorava in un essiccatoio di tabacco, durante l’estate, già da qualche anno. Credo che l’avesse buttata così, tanto per vedere l’effetto, senza immaginare che io non solo l’avrei preso in parola, ma ne avrei anche fatto un punto d’onore. Invece io pensai proprio che, se lavorava mio cugino, perdio, allora avrei lavorato anch’io. Navigavamo forse nell’oro, noi? Certo che no! E allora? Allora l’unico problema rimaneva quello che noi non abitavamo in campagna. Però, se lo zio avesse accettato di ospitarmi, che problema ci sarebbe stato? Già mi ospitava quando andavo da loro in vacanza, così come facevamo noi con mio cugino, perché non avrebbe potuto ospitarmi per qualsiasi altra ragione, tra l’altro in questo caso molto più seria?
Tarmai quindi mio padre fin che, la domenica successiva (allora non avevamo ancora il telefono né l’aveva mio zio) mi accompagnò fin là. Lo zio ovviamente non fece particolari problemi né chiese nulla in cambio, come del resto avremmo fatto noi al posto suo, ma mise in chiaro che non avrebbe voluto fare brutte figure per colpa di “uno di città”. E questo, in effetti, non era strano, perché allora noi eravamo i “damerini di città” così come noi loro erano i “baccanotti di campagna”. Noi li guardavamo un po’ dall’alto in basso e loro ci ricambiavano con una certa diffidenza e un mal dissimulato compatimento. Mio zio non faceva eccezione. Gli risposi allora, un po’ piccato, che non si stesse a preoccupare, che quel che faceva mio cugino l’avrei fatto anch’io. E dunque, una settimana dopo, cominciai anch’io a “filare” il tabacco.
Era un lavoro perfino ridicolo, tant’era facile. Si trattava di annodare, con dello spago sottile, i piccioli delle foglie, in mazzetti di due o tre, appendendoli quindi lungo una stanghetta di legno che veniva poi appesa a sua volta in altissime strisce all’interno dell’essiccatoio.
Ci si alzava però alle sei e mezzo del mattino per essere sul posto alle sette, e si lavorava fino alla sei della sera, con una pausa di un’ora circa per il pranzo, sufficiente per andare a mangiare a casa tant’era vicina. Inoltre eravamo in tanti, forse cento o anche di più, ognuno con un proprio banchetto, e pagati a cottimo, venti lire la stanghetta.
E allora ciò che sembrava facile non lo era più, visto che ognuno correva per sé. Ed io, neanche a dirlo, feci in tutto e per tutto, la figura del cittadino incapace e scansafatiche. In realtà non lo ero, ma distratto e presuntuoso sì. E tanto anche. Tanto da aver preso sottogamba quello che d’acchito m’era sembrato un lavoro addirittura troppo semplice per le mie evidenti capacità. Solo che non avevo fatto i conti col cottimo. E la concorrenzialità che comportava.
Nonostante ce la mettessi tutta, infatti, ero quasi sempre in ritardo rispetto ai locali, magari meno fini nel parlare e nel comportarsi, ma vere e proprie macchine da guerra per ciò che riguardava il lavoro. Prima di tutto, forti della loro esperienza, mi avevano cacciato nel posto più lontano dal punto d’attracco dei carri, e poi erano molto più svelti e più svegli di me, così che mi precedevano regolarmente nelle file d’attesa per l’approvvigionamento. Quando finalmente arrivava il mio turno, spesso non c’era più niente da prendere. E d’altra parte, quando tiravo alla morte per arrivare almeno confuso nel gruppo, poi mi rifiutavano le stanghette all’appenditoio perché incomplete o mal legate, quindi era ancora peggio.
Forse nessuno mi faceva sconti anche per via del fatto che ero un intruso, ma ero veramente più imbranato degli altri, e non solo per la mia scarsa manualità, ma anche perché faticavo a carburare al mattino e avevo l’abbiocco facile dopo pranzo (coi manicaretti che preparava mia zia, mangiavo come un serpente). E poi ero sempre distratto, perso nelle mie fantasticherie, all’epoca incontenibili e dopo anche. Morale della favola, quando andavo bene facevo quaranta stanghette al giorno, quando andavo male venti. Mio cugino, e gli altri come lui, ne facevano quaranta quando andavano male e sessanta quando andavano bene. Ma spesso alla fine della giornata erano venti per me e sessanta per loro. Demoralizzante!
Di quel periodo ormai tanto remoto ricordo la noia, l’odore greve delle foglie appena raccolte e il buon odore che si spandeva da quelle ormai essiccate. E soprattutto il senso di frustrazione che mi prendeva quando, la sera, ci lavavamo nella canaletta lungo l’unica strada asfaltata. Allora, mentre l’acqua gelida m’investiva veloce tanto che le idrometre faticavano perfino a rimanere ferme, mio cugino e i suoi amici mi prendevano in giro per la mia incapacità. Anche mio zio poi, la domenica, ci metteva del suo, dicendo a mio padre: «Meglio che lo fai studiare perché non prende quello che mangia».
Così durai un mese o poco più, tornando a casa con la consapevolezza che mai e poi mai avrei potuto fare, per tutta la vita, ciò che già per un mese era stato una vera tortura. E pensavo veramente che non l’avrei fatto mai più, invece già l’anno successivo, nell’estate del 1969, ci riprovai, spinto dal desiderio di rivincita e anche dal fatto che, proprio in quell’anno, sarebbe cominciata l’era automatizzata. Basta lavoro manuale e niente più pagamento a cottimo, dunque, ma una ventina di macchinari, chiamati volgarmente macchinette, che, come enormi macchine per cucire, provvedevano da sole a legare le foglie attorno alle stanghette.  Due addetti regolari e un ragazzino facevano il lavoro che l’anno prima richiedeva almeno dieci o dodici persone. E così, dove prima c’erano una miriade di banchetti, quell’anno trovai una ventina di macchinette.
Compito dei bocia, e quindi anche mio, era quello d’assicurare i rifornimenti e i trasporti delle stanghette finite. Vietato toccare le macchine per chi era fuori regola e senza assicurazione. Quanto al compenso, era una vera pacchia: cento lire l’ora e quindi otto o novecento o mille lire al giorno assicurate, mentre l’anno prima dovevo sudare sette camicie per prenderne cinque o seicento, e con un ritmo blando che lasciava molti tempi morti. Troppi.
Proprio quello fu il mio problema di quell’anno: l’impegno relativo che mi permetteva di fantasticare senza ritegno, tanto da venir spesso ripreso dal capomacchina e dal suo aiutante, che poi nel mio caso era una capomacchina e la sua aiutante, perché le lasciavo addirittura senza rifornimenti. In particolare poi, dopo qualche ora quando ero anche un po’ stanco, mi sedevo sul traversino sotto la macchina, vicino a dove c’era il passaggio della catena, e, sempre soprapensiero, ne pulivo l’ingranaggio con il dito. Fin che alla fine ce l’infilai dentro.
Quando la carne mi fu sbranata via dalla ruota dentata, lanciai un urlo altissimo che provocò il tempestivo bloccaggio da parte della capomacchina. Evitai così l’amputazione ma rimasi col dito bloccato nell’ingranaggio e il dolore era tale che non mi accorsi ne del tempo che passava ne del fatto che tutti, nel capannone, si erano fermati per venire a liberarmi o semplicemente per stare a guardare. Non mi accorsi nemmeno dell’arrivo del padrone, un uomo magro e alto con capelli scuri e occhi neri imperiosi che nessuno aveva mai il coraggio di salutare, mentre lui passava camminando altero o a bordo della sua auto sportiva e costosissima. Né lui dava mai segno di veder qualcuno, peraltro. Ebbene, in quel momento fu affettuoso e tranquillizzante, pur essendo egli stesso visibilmente scosso. Mi parlò dolcemente e con mille cautele aspettò che mi venisse liberato il dito per poi portarmi personalmente, con la sua splendida auto biposto, fin dal dottore del paese.
Una volta completata la medicazione, una semplice ricomposizione della carne del dito sbrindellato, senza nemmeno un punto di sutura, che mi lasciò una brutta cicatrice ma per fortuna nessuna perdita di funzionalità, mi riaccompagnò personalmente a casa mia in città. E, mentre io mi guardavo il dito con la fasciatura annerita dall’ittiolo, mi raccontò aneddoti spiritosi e tranquillizzanti fin che non arrivammo a casa mia. Una volta lì, si fermò a bere il caffè con mia madre e poi, dopo essersi raccomandato che non lo rovinassimo denunciando l’accaduto alle autorità, mi pagò tutta intera la settimana, anche se era solo martedì mattina. Infine, dopo essersi ancora raccomandato che, in caso di complicazioni, lo avvertissimo e ritornassimo dal medico del paese, anziché al pronto soccorso della città, se ne andò. Prima ancora che lui finisse con tutti questi discorsi io mi ero già ficcato a letto, consapevole, come sono sempre stato, che nessuna medicina aiuta la guarigione più del sonno, ferite comprese.
Fini così, inaspettatamente e ancora ingloriosamente, anche il mio secondo anno di lavoro, stavolta dopo poco più di due settimane. Ma l’esperienza mi maturò e il senso del pericolo mi si acuì. Scoprii in seguito, tornando una domenica a casa degli zii, che ero diventato oggetto d’invidia, tra i ragazzini dell’essiccatoio, per aver fatto, unico a memoria d’uomo, un giro sul coupé del padrone.
Ad ogni modo mio padre decise che, fin che non avessi avuto l’età per essere messo in regola, non avrei più dovuto lavorare. Specificò che non era stato certo lui a obbligarmene e mi disse che sperava che avessi imparato la lezione. Risposi di sì, sentendomi in colpa sul serio.
Passarono quindi due anni in cui, d’estate, bighellonai con gli amici da mattina a sera combinando guai in serie e procurandomi ferite anche molto più gravi, fin che, dopo l’esame di terza media, considerando che ero nato in gennaio e avevo già quattordici anni, mio padre mi disse: «Trovati da lavorare che adesso è ora».
Ricordo che si era appena alzato dal letto dopo le due ore di sonno pomeridiano (che invariabilmente si concedeva poiché si alzava sempre alle tre della notte) e stava prendendo il caffè. Non lo lasciai neanche finire che già uscivo di casa. Attraversata la strada, entrai nel negozio di alimentari che stava quasi di fronte a casa mia, ed ai padroni, marito e moglie entrambi dietro il banco, chiesi se per caso non avessero bisogno di un garzone per l’estate. Mi risposero che per caso ne avevano proprio bisogno e che mi avrebbero pagato mille lire al giorno più tutto quello che sarei riuscito a mangiare. Naturalmente in nero, ovvio. Riattraversai quindi la strada e dissi a mio padre che il lavoro l’avevo già trovato e, anche se la paga era bassa, lo avevo già accettato. Lui aveva appena finito il caffè e si stava accendendo una sigaretta. Mi guardò e disse: «Bene».
In effetti, a parte la paga, il lavoro si dimostrò subito bellissimo. Non solo stavo dietro al banco per aiutare a servire i clienti, ma dovevo anche prendere le ordinazioni telefoniche per le consegne a domicilio, prepararle e poi eseguirne le consegne tra le dieci e trenta e mezzogiorno e mezzo.
Partivo col classico biciclettone coi cestoni di vimini davanti e dietro e facevo per prime le consegne più urgenti e più vicine, e poi, quando il carico era un po’ diminuito, quelle più lontane e isolate in mezzo alla campagna adiacente la città. E allora mi scatenavo nei rettilinei e su per i cavalcavia, completamente immedesimato nei più grandi corridori del giro d’Italia, ogni giorno uno diverso, Motta, Gimondi, Adorni e De Vlaeminck (Merckx era ancora di là da venire). Poi, quand’era pomeriggio, stavo dietro al bancone spesso da solo, fin che i padroni facevano il sonnellino, e poi li aiutavo a riordinare, fare le ordinazioni e pulire il magazzino, dando la caccia ai ragni e agli scarafaggi più grossi, rapidi e zigzaganti come carri armati impazziti. Infine fagocitavo quant’era rimasto invenduto, specialmente bomboloni e brioche varie, e me ne andavo a casa, di là della strada, felice e contento.
Insomma, prendevo poco in quel 1971, ma lavoravo divertendomi e contemporaneamente m’irrobustivo, perché la bici coi cestoni, quand’era a pieno carico, non era mica facile da spingere. In più conobbi un sacco di gente e fui a mia volta conosciuto e apprezzato, tanto da integrare bene la paga con frequenti mance. Anche i padroni furono soddisfatti di me, al punto da offrirmi, l’anno successivo, ancora il lavoro. Solo che a quel punto rifiutai, perché la paga, complice anche un’inflazione a livelli record, era diventata veramente troppo bassa. Mi avrebbero dato milleduecento lire al giorno quando potevo prenderne quattrocento l’ora, e in regola, lavorando in un officina meccanica nemmeno troppo distante da lì. Così preferii quella, anche perché mi servivano i soldi per comprare la moto. Un’Aletta 125, o un Benelli 125, da regolarità: trecentocinque mila lire sonanti per poter fare il figo sui campi da cross e davanti alle ragazzine della zona.
Non l’avessi mai fatto: finii dietro un trapano tutta l’estate del 1972, a bucare piastrine di ferro e poi filettarle tra cigolii e clangori di torni, frese e presse meccaniche e idrauliche varie. Facevo otto ore al giorno: le otto ore più lunghe della mia vita. Unico piccolo diversivo, l’approvvigionamento di piastrine quando le terminavo. Due palle infinite e senza uguali. Già arrivare alla sosta panino, alle dieci, era un’impresa, mezzogiorno, o le sei della sera, un vero calvario. Rompevo apposta le punte del trapano (o i maschi per la filettatura) per poter smettere qualche minuto e attraversare il capannone fino al magazzino, solo che non potevo mica romperne troppe, per non dare nell’occhio. A momenti mi veniva da urlare per non impazzire, e qualche volta lo facevo pure, e non solo io.
Davanti alla mia postazione, circa venti metri più in là, c’era la colonna con sopra l’orologio aziendale. Un orologio che avrei volentieri preso a mazzate, perché in certi momenti sembrava addirittura fermo o rinculante. L’unica sarebbe stata fantasticare, attività nella quale avevo sempre eccelso, solo che fantasticare a comando non è facile. Così, dopo un po’, non riuscivo più a staccare, ed erano guai. Poi c’era il rumore, veramente infernale. Ed io non sopportavo i tappi alle orecchie, coi quali comunque il rumore si sentiva lo stesso, ed arrivavo a sera veramente esasperato e smanioso di godermi un po’ di relax in perfetto silenzio.
Unici diversivi le sfuriate dei capireparto, quasi sempre più cattivi ed aggressivi dei veri padroni, e un incidente ad un operaio che d’improvviso, poveretto, lasciò due dita sotto la pressa. Ricordo bene il suo urlo di dolore e il suo pianto improvviso e inconsolabile. Poi nient’altro, solo l’odore pesante del ferro e dell’olio idraulico e il puzzo della colatura grassi, che era proprio nel fabbricato dietro al nostro e che mollava i suoi micidiali effluvi alle 11,30 e alle 17,30 precise. Ricordo che pensai che, se quello avesse dovuto essere il mio lavoro per tutta la vita, mi sarei sparato. E non per scherzo.
Invece l’anno seguente, nel 1973, feci anche di peggio. Complice il fatto che ero ormai motorizzato, anche se con una misera Lambretta in luogo dell’Aletta o della Benelli che avrei voluto io (perché avevo fatto i conti senza mio padre), accettai la proposta di un altro mio zio che produceva stampi per pandori, pandorini e brioche. Mi mise in regola, come già lo ero stato anche l’anno prima, perché anche lui non voleva correre rischi, a maggior ragione visto il tipo di lavoro e la stretta parentela. Mi diede 600 lire l’ora, che per l’epoca erano proprio un bel prendere, e la possibilità di fare quante ore volessi. Accettai. E dal trapano passai alle presse.
Dopo neanche un mese mia zia lasciò anche lei due dita sotto la pressa, e lo shock fu grande, perché era una zia cui ero molto affezionato. Dopo due, di mesi, ce ne lasciai uno anch’io: il medio della mano destra. Solo mezza falange per la verità, ma lo shock fu grande lo stesso, perché l’unghia, spiaccicata nello stampino a V di una pressa, divenne lunga come una striscia filante. Mio zio mi portò di corsa al pronto soccorso mentre le lacrime mi sprizzavano fuori dagli occhi per il dolore e fin che non mi fecero l’anestesia locale, peraltro pure dolorosissima proprio nella prima falange del dito stesso, vidi letteralmente le stelle. Infine quasi svenni quando mi vidi amputare in diretta quella specie di tagliatella che era diventata la mia ultima falange.
Credevo di averne abbastanza anche per quell’anno, invece, dopo tre settimane, ero di nuovo al lavoro, anche perché, senza me e mia zia, mio zio, poveretto, non sapeva che fare. Ricordo anche la ramanzina che mi fece perché, secondo lui, avevo tolto la sicura che mi aveva tanto raccomandato di non togliere mai, soprattutto dopo l’incidente occorso a mia zia. Io non dissi niente, ma in realtà non avevo tolto un bel niente: mi ero solo dimenticato d’inserirla. Ma quella era proprio un’estate segnata, perché, dopo qualche tempo ancora, ebbi pure un incidente nel tornare a casa. Proprio di venerdì sera, mentre in tshirt, bermuda e zoccoli di legno che allora andavano di moda, già pregustavo il mio meritato “sabato del villaggio”.
Avevo allora l’abitudine di correre esageratamente, quasi per vendicarmi dell’affronto che mio padre mi aveva fatto, relegandomi su una misera Lambretta quando io l’anno prima mi ero così faticosamente industriato a guadagnarmi i soldi per ben altra moto. Si può ben dire che corressi quasi per vendicarmene e farla finita con quello scooter che proprio non m’andava giù. E i risultati furono consequenziali: incidenti a grappolo, a volte anche clamorosi, con un’unica costante: danni alla moto e ad altri veicoli coinvolti ma mai a me stesso. Ma non poteva andare sempre bene, e infatti non ci andò!
Grossomodo a metà strada, c’era infatti un cavalcavia con tre curve abbastanza secche, di quelli che superano strade quasi parallele, ed era mia abitudine prenderlo a manetta dall’inizio alla fine, con un’unica frenata decisa proprio sopra il ponte, dove la curva era più brusca. Arrivato invece in fondo alla discesa, la compressione nella curva schiacciava il povero scooter e le sue misere sospensioni letteralmente “a pacco”, con conseguente clamorosa strisciata di pedane e marmitta sull’asfalto. Quand’era buio si vedevano le scintille, ma anche di giorno non era male. Godevo come un matto. Solo che quella volta si misero di mezzo un camion e i miei maledetti zoccoli di legno. Il camion decidendo di cambiare corsia all’improvviso, subito dopo la fine della discesa, dove la strada, ormai in centro abitato, si avviava verso un semaforo, e lo zoccolo incastrandosi tra il pedale del freno e il tunnel centrale e bloccando senza scampo la povera ruota posteriore. E privando così la moto di ogni direzionalità.
Motociclista nato, reagii d’istinto, buttandomi a terra per non finire sotto al camion, e ruzzolai fino a fermarmi contro il muro a sinistra della strada stessa. Lambretta compresa a un paio di metri di distanza.
Poi fu un attimo. Cosa succeda a volte, quelle volte, nella testa di un ragazzo di sedici anni, e nella mia in particolare, è duro spiegare. Sta di fatto che scordai seduta stante le mie evidenti e preponderanti colpe, e scaricai tutta la mia rabbia sul povero camionista, il quale nemmeno si era accorto di niente, fermandosi tranquillo, in attesa, poco prima del semaforo rosso. Lo raggiunsi completamente fuori di me, picchiando cazzotti contro la portiera e investendolo di male parole. Per tutta risposta lui si prese tutta la colpa e mi accompagnò pure al pronto soccorso. Due ore dopo me ne tornavo a casa con la coda tra le gambe e la lambretta tutta scassata (quella volta ero riuscito a fare un bel danno) portata a mano. Dimenticavo: ero fasciato come una mummia e, quando mia madre mi aprì la porta di casa, per poco non andò lunga distesa.
La convalescenza mia e della Lambretta chiuse comunque anticipatamente anche quella stagione. Solo che, una volta riaggiustata, pur parca ma ad acqua non andava, poverina! E avendo io chiuso anticipatamente e sciaguratamente la stagione estiva, dovetti industriarmi a racimolare qualche soldo anche durante l’inverno. Lavorai così, nei pomeriggi in cui avevo poco da studiare, in una fabbrica d’attaccapanni di plastica e di legno. Ci andavo quando potevo e facevo quante ore volevo, previo avvertimento telefonico il giorno precedente. Mi pagavano in contanti sull’unghia e mi faceva un comodo dell’anima. Ma l’anima stessa pur sempre soffriva, costretta ancora una volta dietro macchinari tediosi che puzzavano di plastica bruciata o segatura scottata, così ci pagai la miscela e i divertimenti per un paio d’inverni, ma rinunciai appena possibile, giurando a me stesso che mai e poi mai avrei più fatto simili lavori a catena per nessun motivo al mondo.

Andai quindi in una cooperativa facchini, mi ci iscrissi e chiarii che mi andavano bene tutti i lavori dove non ci fossero stati macchinari del diavolo a dettarmi i loro diabolici tempi. Detto fatto, durante la primavera scaricai camion di frutta e verdura nei vari magazzini della zona industriale e, l’estate successivo, quella del 1974, ebbi la più bella serie di lavori di sempre: tre in una sola estate.
Cominciai con la fabbrica del ghiaccio. Avete presente quei parallelepipedi da sedici chili che venivano usati, appositamente tritati, dai pescivendoli ed altri venditori ambulanti? Proprio quelli. E, dico, d’estate, quando ancora non si sapeva cosa fosse l’aria condizionata, cosa c’era di più bello che lavorare in una fabbrica così? Avrei quasi pagato io, se non mi avessero pagato loro!
E poi era un lavoro totalmente autonomo. Da solo dovevo manovrare il meccanismo che faceva avanzare le serie di blocchi, da solo dovevo toglierli ed accatastarli sui pallets, e da solo, col muletto, dovevo poi prenderli e portarli dentro la cella frigorifera. Per di più mi lucidavo anche un po’ i bicipiti, manovrando quei blocchi con guanto e rampino. Cosa volere di più? Stavo quasi per mettere le mani avanti anche per l’anno successivo, quando mi toccò invece licenziarmi.
Già so che adesso direte «Ma a questo qui non gliene va mai bene una!» ma stavolta non mi successe niente di male, solo che avevo un’occasione d’oro per andare in ferie e non ci avrei rinunciato per nessuna ragione al mondo. E le ferie, una fabbrica di ghiaccio, in estate non le poteva proprio fare, per cui mi dissero «se vuoi andare vai però noi dobbiamo prendere un altro» e io dissi loro che mi sembrava giusto, li ringraziai e ciao.
Il lunedì di ferragosto ero a Cesenatico, insieme a quattro altri amici miei, in un albergo bellissimo pieno zeppo di belle clienti e altra degnissima fauna locale. Al futuro avrei pensato al ritorno, dopo la settimana di vita che mi aspettava e che ero ben deciso a godermi fino all’ultima stilla. Ma, come spesso accade quando le aspettative sono esagerate, i risultati furono inversamente proporzionali. Non battei chiodo per quasi tutta la settimana, salvo poi scoprire un filarino promettente quasi fuori tempo massimo. Dovevo trovare quindi una soluzione per restare in loco ma soldi non ne avevo più. Mi ridussi, il penultimo giorno, a visitare la cooperativa facchini locale, la quale però aveva posto solo su qualche barcone di pescatori. Ma lavorare di notte, per di più fuori in barca, avrebbe automaticamente ucciso il mio sex appeal serale da spiaggia, perciò rifiutai. Ed ebbi un insperato colpo di fortuna proprio nel mio stesso albergo.
Il mattino stesso della ripartenza, trovai un foglio, appeso appena fuori dall’ascensore, che diceva testualmente “cercasi urgentemente cameriere”. Andai difilato alla reception, parlai col padrone e, dopo nemmeno dieci minuti, salutavo i miei amici che ripartivano senza di me.
Mi accomodai nella mia nuova sistemazione, nella soffitta dell’albergo dove dormivano i due camerieri altoatesini dell’albergo (il terzo era ripartito la sera prima per un urgente problema familiare e proprio il posto suo avevo preso io) e due ore dopo servivo già in sala da pranzo. Oddio, servire era una parola grossa. Diciamo che vagavo con aria smarrita tra clienti che mi chiamavano da tutte le parti con ordinazioni che il più delle volte avevo già dimenticato prima ancora d’arrivare alla cucina. O, se le avevo scritte, avevo dimenticato chi le me aveva fatte. Fu un disastro colossale e già il giorno dopo ero stato retrocesso ad una funzione minore, appositamente inventata per me e scorporata da quelle degli altri: cameriere delle sole bevande.
Ma il peggio fu che, già la sera stessa, il mio filarino sfumò, saltabeccando dalle profferte di un ragazzotto che in un solo giorno aveva subito due infamanti retrocessioni (da cliente a cameriere e poi a inserviente-sguattero) cioè io, a quelle di un altro cliente forse meno simpatico e aitante ma certo più tosto e danaroso. E così mi ritrovai a fare il vice cameriere-sguattero in un posto che, da paradiso, era diventato inferno. Per di più in stanza con due bolzanini che non mi nascondevano la loro antipatia, acuita dal fatto che, fino al giorno prima, da cliente, li avevo trattati piuttosto male. E in più, a causa della mia incapacità, adesso gli era anche aumentato il carico di lavoro. Basti dire che parlavano rigorosamente in tedesco, anche rivolgendosi a me, salvo poi bestemmiare in perfetto italiano, cosa che m’indispettiva particolarmente.
Durai una settimana esatta, imparando a mie spese quanto sia duro e difficile il lavoro del cameriere, un altro di quei lavori che tutti sono convinti di saper fare per il solo motivo di averlo sempre visto fare. Invece mai proverbio fu per me più assiomatico di quello che dice “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Nel mio caso, quello di Cesenatico. Montai sul treno la domenica sera, con un sollievo che mai avrei immaginato anche solo una settimana prima, e il martedì successivo avevo già un altro lavoro.
Impianti d’illuminazione per sedi stradali, stavolta. Lampioni, collegamenti, fili elettrici e cose del genere. Partivamo la mattina col camioncino coi pali, le bobine e le plafoniere, e passavamo tutta la giornata lavorando lungo le strade. Imparai subito che preferivo di gran lunga lavorare all’aperto piuttosto che in qualsiasi ambiente chiuso, pur bello come l’albergo di Cesenatico. E che mangiare a mezzogiorno in trattoria, insieme al resto della squadra, mi piaceva di più che mangiare a casa mia. Il lavoro poi non era male. Certo a me toccavano i lavoretti di manovalanza, come caricare e scaricare i pali dal camion e nastrare i collegamenti elettrici sul fondo dei tombini, col noioso mal di schiena che ne derivava, ma ormai non mi crucciavo più di tanto. Sapevo che ogni lavoro ha il suo osso e tiravo sera serenamente.
Imparai in fretta anche un altro lavoro, parallelo e collegato e un tantino fuorilegge. Quello d’imboscare ogni tanto un po’ di cavi elettrici per andare poi a recuperarli col favore delle tenebre e rivenderli come rame a un tanto al chilo, arrotondando un po’ il salario.
Infine, per completare un anno che resterà mitico nella mia memoria, nell’inverno tra il 1974 e il 1975 mi dedicai anche a una nuova attività: quella di tinteggiatore d’appartamenti. Sfruttando l’esperienza accumulata a casa mia pitturando il nostro appartamento assieme a mio papà e mio fratello, misi in piedi una piccola impresa per fare appartamenti tra il sabato pomeriggio e la domenica, quand’ero a casa da scuola. Mio socio fu un mio amico anche lui esperto tinteggiatore e mio fratello più piccolo. Nostro mezzo locomotore un magnifico Apecar furgonato, recuperato a costo zero da un noto ladro della zona, che andò poi distrutto dal sottoscritto sulla pista da cross della zona, in un improvvisata kermesse domenicale contro altri più elaborati mezzi similari.
Facemmo cinque appartamenti in tutto, quell’inverno, incamerando cifre straordinariamente alte per le nostre abitudini, che però dilapidammo quasi per intero tra piste di gokart, sale giochi e dispendiose, e quasi sempre perdenti, sfide a biliardo. Ed era comunque un lavoro tosto e faticoso di cui ricordo, oltre alla soddisfazione per i guadagni clamorosi, la gentilezza delle famiglie presso le quali lavoravamo e l’insopportabile faccia di merda di un viziatissimo ragazzetto cui dipingemmo la stanza da letto (in un grigio orripilante) per ben quattro volte. La quinta sarebbe stata per la sua faccia e ancora mi dispiace di non avergliela potuta dare.
Venne l’estate del 1975, l’ultima dei miei anni di superiori, nella quale lavorai per un’impresa di costruzioni edili, come aiuto manovale. Il primo giorno mi ritrovai aggregato ad una squadra che doveva cementare la nuova fontana della Lessinia nel bel mezzo della centralissima piazza Bra. E fu come lavorare in un acquario, letteralmente immersi con le caviglie nell’acqua della nuova fontana, e circondati da turisti curiosi che ci fotografavano a tutto spiano, incuriositi sia dai lavori che dalla forma (piatta e brulla) della nuova fontana.
Dal secondo giorno invece, e fino alla fine di quell’estate, lavorai in collina, ai lavori d’ampliamento della vasca dell’acquedotto comunale. O meglio, alla costruzione di una nuova vasca adiacente. A parte le vesciche del primo giorno, quando io e il manovale, ma soprattutto io, facemmo la malta col badile perché non era ancora arrivata la betoniera, fu un lavoro abbastanza piacevole. Eravamo solo in tre: un muratore anziano, suo figlio, all’incirca della mia età e già manovale, ed io, completamente digiuno come al solito.
Partivamo il mattino con la seicento del muratore, che la guidava come fosse un trattore, per tornare a sera. Non mi trattavano ne bene ne male, e mangiavamo ognuno la nostra  roba, riscaldata nella gavetta, seduti su un asse appoggiata su due bidoni, davanti a una splendida vista del lago di Garda e della città lontana. Poi facevamo un breve pisolino, o una passeggiata quando non avevo sonno, per completare l’ora di sosta. Quando poi pioveva me ne andavo a funghi o per lumache. M’annoiavo un po’, perché non c’era verso di far due parole decenti con gli altri due, ma ero stato sicuramente peggio.
Il lavoro era un bel lavoro. Costruire è bello, così com’è bello giocare con le costruzioni quando si è bambini. E anche se la nostra non era una casa, piantare e spiantare assi, chiodi e chiavelle, prima e dopo la gettata di calcestruzzo, dava l’idea di un lavoro in progresso, che realizzava giorno dopo giorno un progetto concreto di ampio respiro. Mi divertiva anche pensare che l’acqua che avremmo bevuto tutti, quindi anche io, sarebbe passata per chissà quanto tempo attraverso un qualcosa che anch’io avevo contribuito a creare.
Quell’anno non ebbi incidenti particolari, tranne uno shock anafilattico dovuto a punture di tafani che mi fece star due giorni a letto con la febbre alta. E un solo episodio, che ruppe la routine, degno di nota. Accadde l’ultimo giorno, quando spiantammo il cantiere. Togliendo ibidoni che avevano sostenuto l’asse sulla quale ci eravamo seduti a mangiare, scoprimmo un ammasso di serpenti neri come il carbone e lunghi forse un metro o anche più. Erano appunto “carbonassi” della Lessinia, per niente velenosi ma ugualmente raccapriccianti. E forse erano lì da chissà quanto, magari attirati proprio dalle briciole che inevitabilmente cadevano per terra mentre noi, seduti sull’asse, tranquillamente pasteggiavamo.
Il 1976 fu l’anno degli esami, in cui non volli distrazione alcuna ne prima ne dopo, e così cominciai a lavorare solo in settembre, nell’attesa di partire, nel gennaio successivo, per il militare. Attraverso la solita cooperativa trovai lavoro in una manifattura di filati dove lavoravano più di trecento donne di tutte le età. Ma non successe nulla di ciò che pensate, essendo io stupidamente fidanzato e sciaguratamente anche fedele. Il mio compare, invece, anche lui facchino avventizio che, come me, veniva dalla città, ci dava dentro di brutto, infognandosi in storie assurde e complicatissime con donne che tra l’altro, per me, non valevano nemmeno la pena. Ma contento lui …
Dopo il militare invece, nell’attesa di trovare il lavoro stabile che poi diventò la mia vita (e speriamo non anche la morte) andai a fare bracciantato qua e là, finendo perfino per tirar giù ciliegie bellissime in una tenuta incantevole attorno a una villa altrettanto bella. E accadde esattamente quello che m’era successo undici anni prima col mio primo lavoro: i campagnoli mi surclassavano regolarmente, finendo per mettere sulla bilancia, alla fine della giornata (anche allora ci pagavano a chilo), il doppio o il triplo delle ciliegie che riuscivo io. Ma stavolta c’era un perché: circa altrettante finivano in un'altra cassetta: quella del mio stomaco, allora senza fondo.

Ecco, finisce qui il resoconto delle mie avventure lavorative durante il periodo scolastico, in un epoca in cui esistevano molte meno restrizioni di adesso (oppure non venivano fatte rispettare, il che è praticamente lo stesso). Senz’alcuna pretesa che quella di essere un semplice, e spero divertente, diario di un quasi senescente, mi fa comunque venire in mente quanto sia cambiata la nostra società da allora ad oggi, e quanto meno liberi, adesso, di agire e, perché no, anche di sbagliare.
Se sia un bene o un male certo è difficile dire e forse sarebbe un’interessante argomento di discussione, ma non è questo il fatto che voglio sottolineare, quanto piuttosto quello che il lavoro fa comunque consapevolezza ed esperienza e che, senza, si ha una percezione illusoria di quello che è alla base della nostra stessa esistenza.
In fin dei conti non credo sia male che un ingegnere sappia cosa vuol dire fare il muratore, se non proprio il manovale, così come credo non sia male che un medico sappia cosa vuol dire fare l’infermiere se non addirittura l’inserviente.
E forse è ora anche di riconsiderare se veramente il lavoro sia inadatto ai bambini e alla loro crescita individuale e sociale, almeno oltre una certa età. Certo senza essere traumatizzati, né messi in eccessiva costrizione (o sconsiderato e criminale pericolo) e soprattutto assolutamente non sfruttati. Ma nemmeno lasciati ad una scuola quasi puramente teorica ed astratta con stage all’acqua di rose abbondantemente fuori dall’età veramente formativa.
E qui mi fermo, altrimenti da una cosa quasi faceta salta fuori quasi un racconto a tesi che non era nelle mie intenzioni né nelle mie capacità. Ma a chi mi chiedesse se quaranta o cinquanta anni fa il lavoro minorile fosse una specie di piaga sociale, risponderei certamente di no. Un problema sociale ne era casomai lo sfruttamento, che esisteva, certo, ma che non mi ha mai riguardato. E un altro problema, altrettanto grave anche se magari diverso, ne è oggi l’assoluta e ineluttabile mancanza.

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