I miei primi sedici anni
Riassumerò molto brevemente i miei primi sedici anni di
vita. Sono stato fortunato. Ciò che si dice un bambino veramente felice. Soldi
pochi ma genitori belli, buoni, bravi e a mia completa disposizione. Poi è
arrivata mia sorella e dopo ancora mio fratello, ma non è che sia cambiato
molto: sono stato semplicemente un bambino ancora più felice, coi gradi e le
responsabilità da primogenito.
Sono stato felice anche per via di un successo personale
evidente e meritato, direi quasi scontato. Le mie qualità erano evidenti quasi
quanto la mia predestinazione a qualcosa di bello ed elevato. Così dicevano tutti
quelli che mi conoscevano o che mi vedevano una tantum o per la prima e unica volta.
E così anch’io.
Le più volte dicevano che ero bello come i miei genitori
ma più intelligente. E in effetti i risultati sembravano confermarlo. Mio
babbo, nato e cresciuto in uno sperduto paesino di montagna, aveva impiegato
sei anni per fare la terza elementare, allora obbligatoria, e nemmeno gli erano
bastati se è vero che, dopo, aveva dovuto fare le serali.
Io alle elementari non avevo rivali. In quarta o quinta ho
avuto un maestro che mi portava in palmo di mano (e che più tardi l’avrebbe schiacciato
sulle ambizioni di mio fratello) e i miei voti erano semplicemente al top. Non bastasse,
poco prima dell’esame vinsi anche una borsa di studio di venticinque mila lire
messa in palio dalla Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza e Belluno, con un
tema che nemmeno ricordo più.
Alle medie non andò più così bene ma nemmeno male. Non
ero al top ma immediatamente sotto. Cominciai quindi a pensare di essere sì al
di sopra della media, ma anche che, comunque, ce n’erano di più bravi di me. In
particolare, ma non solo, il mio amico del cuore, Claudio, un bel ragazzo più
biondo di me e dal fisico più atletico, figlio di un grossista di frutta e
verdura che morì quando lui aveva appena quindici anni, una amico vero col
quale condivisi i momenti più belli della prima adolescenza. Ma anche la
tristezza e il disorientamento del primo abbandono: il suo.
Quando finimmo le medie, infatti, io con “distinto” e lui
con “ottimo”, scelse una scuola diversa dalla mia, e questo ci poteva stare
viste le sue attitudini, ma anche una nuova parrocchia, quella di Tomba Extra,
e una nuova compagnia. Si allontanò da me senza un motivo né una spiegazione.
Ci rimasi male, molto male. Ancora oggi non me lo spiego se non col fatto che forse
io per lui non ero ciò che lui era per me.
Non ero tipo da insistere o pietire, però. Mi allontanai
anch’io da lui e dalla parrocchia, ma non per andare in un’altra, anche perché io
non credevo più in Dio e non abitavo a metà strada tra le due come lui, bensì
per ripiegare su compagnie diverse e, per certi versi, ben peggiori. Compagnie
che i miei genitori non gradivano, dicendo che non erano alla mia altezza, e che,
a dire il vero, non facevano impazzire neppure me.
Fuori dalla parrocchia, però, in un sobborgo dove c’erano
più fabbriche che case, e infatti si chiamava San Zeno alla Z.A.I., questo c’era:
ragazzi che non andavano bene a scuola o che non ci andavano tout court, ragazzi
che avrebbero finito per fare le serali e diventare in massima parte meccanici,
operai, artigiani o, se andava peggio, anche ladri, alcuni già lo erano allora,
spacciatori e delinquenti comuni. Con destinazione galera o cimitero.
Il loro centro di gravità era l’Autogrill, un bar
ristorante molto moderno, tutto in vetro e metallo, rotondo a due piani con
quello sopra più grande di quello sotto, situato tra il Bauli e la chiesa della
Z.A.I. sulla via che portava all’autostrada. Era aperto fino a tardi e
piuttosto malfamato. Non era raro che arrivasse la madama o la caramba e
portasse dentro tutti o quasi. Delinquenti e prostitute ma anche i ragazzi che volteggiavano
loro attorno come remore intorno agli squali. Ecco, questi erano i ragazzi che
frequentavo io, ed erano la chiave per ritagliarmi un’immagine da ragazzo di
strada che mi piaceva molto e mi faceva gioco altrove. A scuola, per esempio.
Siccome ero già quello che aveva vinto entrambe le borse
di studio cui aveva partecipato (perché ne avevo vinta un’altra alla fine delle
medie che mi valse, oltre al premio iniziale, una rendita di centocinquantamila
lire l’anno per tutta la durata delle superiori a condizione che non venissi
mai rimandato in alcuna materia), e siccome facevo i temi in mezz’ora e il
resto del tempo aiutavo chi mi pareva o mi facevo i fatti miei, non potevo certo
essere anche quello attaccato alla sottane dei preti o alle giacche dei
professori. Così studiavo il meno possibile e praticamente solo durante i mesi
di maggio e giugno, per via della borsa di studio, riuscendo comunque a ottenere
la sufficienza abbondante in tutte le materie e la quasi eccellenza nelle mie
preferite.
Questo comportamento, però, aveva un prezzo: la
frustrazione dei miei genitori e l’esecrazione della maggior parte dei miei professori,
tranne quelli che invece proprio per questo mi idolatravano, ma erano cose che
pensavo di potermi permettere, così non me ne crucciavo troppo.
Un’altra frustrazione per i miei genitori fu invece la
perdita della fede da parte mia. Oggi direi che forse non l’ho mai avuta e come
e quando successe non lo ricordo nemmeno, ma probabilmente è stata una cosa
graduale favorita dal fatto che avevo uno spirito critico e vedevo le cose oggettivamente,
sia pur dal di dentro.
Avevo infatti ricevuto un’educazione rigidamente osservante
e fatto il chierichetto servendo dio solo sa quante messe. Il prete faceva
spesso dei concorsi con premi anche sostanziosi (una volta vinsi tre giorni di
viaggio a Roma) e io li vinsi tutti. Ma contava più il premio che il mezzo. Avevo
poi continuato l’iter facendo anche il catechismo ai bambini più piccoli e il volontariato
coi poveri della parrocchia. Infine pure i ritiri spirituali a casa Gioiosa. Tutti
quelli che vennero organizzati furono miei.
Forse sono andato fuori giri, forse il dubbio ce l’ho sempre
avuto dentro Ricordo infatti che fui il
solo a indagare come e quando l’acqua e l’olio santo venissero creati e usati. E
scoprii quasi subito che il conto non tornava. Ma il punto di non ritorno fu
quando, a quindici anni, feci il catechista per un gruppo di ragazzini di dieci
che si preparavano alla cresima. Mi sentii improvvisamente ridicolo a legger loro
di qualcuno che apriva le acque del mar rosso con un bastone e mi sentii anche
peggio quando ci fu da ragionar con loro su un dio buono e misericordioso che aveva
mandato un angelo sterminatore a uccidere tutti i primogeniti del popolo che opprimeva
quello suo prediletto. Non parliamo poi degli altri ancora più risibili miracoli.
In fin dei conti lo sono tutti.
Dissi quindi al parroco che ero entrato in crisi e che, una
volta fatta la cresima ai miei ragazzini, perché io i lavori li finisco sempre da
sempre, me ne sarei andato per la mia strada. Lui mi disse arrivederci e glielo
dissi anch’io, ma sapevo che non sarei tornato.
I miei primi sedici anni sono tutti qui. Dopo le
elementari e le medie dove tutto sommato, a parte l’intelligenza, fisicamente
non avevo mai eccelso, ero diventato pure alto, uno e ottanta o giù di lì, anche
se magro e senza muscoli e peli. Ma c’era ancora tempo. Bello ero sempre stato
e lo ero ancora, i muscoli me li sarei fatti, i peli forse sarebbero arrivati e
in fin dei conti si poteva vivere anche senza. Già così, comunque, qualche ragazza
era finita nel mio carniere. Roba platonica, cotte da morirci d’emozione e/o
pomiciate all’acqua di rose. Ma, insomma, pur con la zavorra di un’educazione
cattolica a incasinare tutto, pur con classi rigorosamente a sessi separati fin
dalla prima elementare, qualcosa riuscivo a combinare, anche se meno di quel
che avrei voluto.
Se mi avessero chiesto se ero felice avrei risposto di
no, come tutti gli adolescenti, credo, ma col senno di poi invece dico sì. Se
la felicità consiste nell’essere contenti di se stessi e di ciò che si riesce a
fare, io ero felice.
Poi sono cominciati i guai.
Esattamente nel 1973.