venerdì 1 gennaio 2016

2016



Duemila sedici, cinquantanove
quasi, e un’infinità di guerre perse
dopo improbabili e assurde prove
tutte impossibili, tutte diverse.

Duro trovare il senso che muove
questa mia sorte, durissimo il forse
che mi condanna a sfide sempre nuove
ben superiori alle mie scarse forze.

Pur questa è la vita, la mia almeno,
dove val poco l’ingegno e il talento
e il solo modo adatto a sfangarla

è non recedere mai, star sereno,
frenando l’impeto e andando a rilento.
Poi, se non c’è un’occasione, crearla.

sabato 21 novembre 2015

di Guerra e di Pace



Ma la guerra È una brutta cosa?

Può darsi. Anzi, quasi sicuramente, visto l’andazzo. Però, se lo è (e lo è) è più per le sue degenerazioni che per la sua essenza. Oggi c’è l’uso, infatti, di chiamare atto di guerra ciò che un secolo fa si sarebbe chiamato semplicemente assassinio, strage. E si sarebbe universalmente esecrato, senza se e senza ma di sorta. Oggi invece si chiama impropriamente atto di guerra anche un’azione terroristica. Che non lo è perché una guerra dev’essere, ed è sempre stata, tra soldati, non tra civili. E massimamente non tra soldati (ammesso che si possano definire tali quelli che lo fanno) e civili. Cioè individui ignari, inermi e impossibilitati a reagire.

Si è del tutto perso il senso delle regole e dell’onore. Oggi la parola onore non si usa quasi più. È considerata un retaggio del passato e, in particolare, di un passato che vogliamo dimenticare. Ma l’onore è la prima cosa per una persona che voglia essere veramente tale. L’onore, lo dice il vocabolario, è la dignità personale riflessa nella stima altrui. È, o dovrebbe essere, una cosa imprescindibile in qualsiasi società civile. Ma oggi noi non la usiamo più. Usiamo reputazione, che dell’onore è solo il guscio esterno. Ciò che si vede, non ciò che si è. Non ciò che si sente di essere. Usiamo perfino “uomo d’onore” come sinonimo di mafioso, che dell’uomo d’onore è l’esatto contrario. Invece la prima regola di una persona d’onore è la pietà, cioè la compartecipazione e la solidarietà per chi è più debole o soffre.

E da ciò deriva che in guerra non vale tutto. In guerra il soldato combatte il soldato. E con determinate regole d’ingaggio. E allora la guerra può anche non essere ingiusta, come non lo sono state moltissime guerre o battaglie che ci hanno aiutato a diventare, o restare, ciò che attualmente siamo.

Altra riflessione, consequenziale: la pace.

La pace è sempre bella?

Quando in pace non c’è giustizia, non c’è benessere, non c’è prosperità non credo proprio.

Ma voglio andare più in là. La pace non è che un breve periodo di pausa tra due guerre. La pace è come la felicità. Non esiste, se non come momento effimero e fine a se stesso.

La natura umana non è fatta per la pace. Non siamo pecore, ma lupi. La vita stessa è guerra e non pace. A tutti i livelli, in tutti i regni e in tutte le situazioni. Non c’è il sia pur minimo microbo che non lotti strenuamente contro il mondo intero e massimamente contro i suoi competitori diretti per la vita stessa. E pazienza se i suoi competitori sono suoi simili. Non è vero che cane non mangia cane. Leone mangia leone, eccome, giraffa uccide giraffa, cervo ammazza cervo. Per il territorio, per il cibo, per la riproduzione. In una parola, per il dominio.

Quindi niente illusioni. Niente sproloqui insensati sulla pace e niente considerazioni aprioristiche contro la guerra. A volte la guerra non è che il rimedio a una pace ingiusta e dispensatrice di fame e malattie. Spesso è l’unica difesa contro aggressori che vogliono imporci la loro supremazia e il loro stile di vita. O anche il contrario, certo. Ma in ogni caso ciò per cui dobbiamo batterci, ciò per cui è giusto batterci, e che ci differenza dal resto degli animali, è la giustizia. E l’onore. E questo comporta la lotta più feroce e spietata contro chi ce li vuol far perdere.

martedì 3 novembre 2015

Incipit del mio nuovo libro



I miei primi sedici anni


Riassumerò molto brevemente i miei primi sedici anni di vita. Sono stato fortunato. Ciò che si dice un bambino veramente felice. Soldi pochi ma genitori belli, buoni, bravi e a mia completa disposizione. Poi è arrivata mia sorella e dopo ancora mio fratello, ma non è che sia cambiato molto: sono stato semplicemente un bambino ancora più felice, coi gradi e le responsabilità da primogenito.
Sono stato felice anche per via di un successo personale evidente e meritato, direi quasi scontato. Le mie qualità erano evidenti quasi quanto la mia predestinazione a qualcosa di bello ed elevato. Così dicevano tutti quelli che mi conoscevano o che mi vedevano una tantum o per la prima e unica volta. E così anch’io.
Le più volte dicevano che ero bello come i miei genitori ma più intelligente. E in effetti i risultati sembravano confermarlo. Mio babbo, nato e cresciuto in uno sperduto paesino di montagna, aveva impiegato sei anni per fare la terza elementare, allora obbligatoria, e nemmeno gli erano bastati se è vero che, dopo, aveva dovuto fare le serali.
Io alle elementari non avevo rivali. In quarta o quinta ho avuto un maestro che mi portava in palmo di mano (e che più tardi l’avrebbe schiacciato sulle ambizioni di mio fratello) e i miei voti erano semplicemente al top. Non bastasse, poco prima dell’esame vinsi anche una borsa di studio di venticinque mila lire messa in palio dalla Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza e Belluno, con un tema che nemmeno ricordo più.
Alle medie non andò più così bene ma nemmeno male. Non ero al top ma immediatamente sotto. Cominciai quindi a pensare di essere sì al di sopra della media, ma anche che, comunque, ce n’erano di più bravi di me. In particolare, ma non solo, il mio amico del cuore, Claudio, un bel ragazzo più biondo di me e dal fisico più atletico, figlio di un grossista di frutta e verdura che morì quando lui aveva appena quindici anni, una amico vero col quale condivisi i momenti più belli della prima adolescenza. Ma anche la tristezza e il disorientamento del primo abbandono: il suo.
Quando finimmo le medie, infatti, io con “distinto” e lui con “ottimo”, scelse una scuola diversa dalla mia, e questo ci poteva stare viste le sue attitudini, ma anche una nuova parrocchia, quella di Tomba Extra, e una nuova compagnia. Si allontanò da me senza un motivo né una spiegazione. Ci rimasi male, molto male. Ancora oggi non me lo spiego se non col fatto che forse io per lui non ero ciò che lui era per me.
Non ero tipo da insistere o pietire, però. Mi allontanai anch’io da lui e dalla parrocchia, ma non per andare in un’altra, anche perché io non credevo più in Dio e non abitavo a metà strada tra le due come lui, bensì per ripiegare su compagnie diverse e, per certi versi, ben peggiori. Compagnie che i miei genitori non gradivano, dicendo che non erano alla mia altezza, e che, a dire il vero, non facevano impazzire neppure me.
Fuori dalla parrocchia, però, in un sobborgo dove c’erano più fabbriche che case, e infatti si chiamava San Zeno alla Z.A.I., questo c’era: ragazzi che non andavano bene a scuola o che non ci andavano tout court, ragazzi che avrebbero finito per fare le serali e diventare in massima parte meccanici, operai, artigiani o, se andava peggio, anche ladri, alcuni già lo erano allora, spacciatori e delinquenti comuni. Con destinazione galera o cimitero.
Il loro centro di gravità era l’Autogrill, un bar ristorante molto moderno, tutto in vetro e metallo, rotondo a due piani con quello sopra più grande di quello sotto, situato tra il Bauli e la chiesa della Z.A.I. sulla via che portava all’autostrada. Era aperto fino a tardi e piuttosto malfamato. Non era raro che arrivasse la madama o la caramba e portasse dentro tutti o quasi. Delinquenti e prostitute ma anche i ragazzi che volteggiavano loro attorno come remore intorno agli squali. Ecco, questi erano i ragazzi che frequentavo io, ed erano la chiave per ritagliarmi un’immagine da ragazzo di strada che mi piaceva molto e mi faceva gioco altrove. A scuola, per esempio.
Siccome ero già quello che aveva vinto entrambe le borse di studio cui aveva partecipato (perché ne avevo vinta un’altra alla fine delle medie che mi valse, oltre al premio iniziale, una rendita di centocinquantamila lire l’anno per tutta la durata delle superiori a condizione che non venissi mai rimandato in alcuna materia), e siccome facevo i temi in mezz’ora e il resto del tempo aiutavo chi mi pareva o mi facevo i fatti miei, non potevo certo essere anche quello attaccato alla sottane dei preti o alle giacche dei professori. Così studiavo il meno possibile e praticamente solo durante i mesi di maggio e giugno, per via della borsa di studio, riuscendo comunque a ottenere la sufficienza abbondante in tutte le materie e la quasi eccellenza nelle mie preferite.
Questo comportamento, però, aveva un prezzo: la frustrazione dei miei genitori e l’esecrazione della maggior parte dei miei professori, tranne quelli che invece proprio per questo mi idolatravano, ma erano cose che pensavo di potermi permettere, così non me ne crucciavo troppo.
Un’altra frustrazione per i miei genitori fu invece la perdita della fede da parte mia. Oggi direi che forse non l’ho mai avuta e come e quando successe non lo ricordo nemmeno, ma probabilmente è stata una cosa graduale favorita dal fatto che avevo uno spirito critico e vedevo le cose oggettivamente, sia pur dal di dentro.
Avevo infatti ricevuto un’educazione rigidamente osservante e fatto il chierichetto servendo dio solo sa quante messe. Il prete faceva spesso dei concorsi con premi anche sostanziosi (una volta vinsi tre giorni di viaggio a Roma) e io li vinsi tutti. Ma contava più il premio che il mezzo. Avevo poi continuato l’iter facendo anche il catechismo ai bambini più piccoli e il volontariato coi poveri della parrocchia. Infine pure i ritiri spirituali a casa Gioiosa. Tutti quelli che vennero organizzati furono miei.
Forse sono andato fuori giri, forse il dubbio ce l’ho sempre avuto dentro  Ricordo infatti che fui il solo a indagare come e quando l’acqua e l’olio santo venissero creati e usati. E scoprii quasi subito che il conto non tornava. Ma il punto di non ritorno fu quando, a quindici anni, feci il catechista per un gruppo di ragazzini di dieci che si preparavano alla cresima. Mi sentii improvvisamente ridicolo a legger loro di qualcuno che apriva le acque del mar rosso con un bastone e mi sentii anche peggio quando ci fu da ragionar con loro su un dio buono e misericordioso che aveva mandato un angelo sterminatore a uccidere tutti i primogeniti del popolo che opprimeva quello suo prediletto. Non parliamo poi degli altri ancora più risibili miracoli. In fin dei conti lo sono tutti.
Dissi quindi al parroco che ero entrato in crisi e che, una volta fatta la cresima ai miei ragazzini, perché io i lavori li finisco sempre da sempre, me ne sarei andato per la mia strada. Lui mi disse arrivederci e glielo dissi anch’io, ma sapevo che non sarei tornato.
I miei primi sedici anni sono tutti qui. Dopo le elementari e le medie dove tutto sommato, a parte l’intelligenza, fisicamente non avevo mai eccelso, ero diventato pure alto, uno e ottanta o giù di lì, anche se magro e senza muscoli e peli. Ma c’era ancora tempo. Bello ero sempre stato e lo ero ancora, i muscoli me li sarei fatti, i peli forse sarebbero arrivati e in fin dei conti si poteva vivere anche senza. Già così, comunque, qualche ragazza era finita nel mio carniere. Roba platonica, cotte da morirci d’emozione e/o pomiciate all’acqua di rose. Ma, insomma, pur con la zavorra di un’educazione cattolica a incasinare tutto, pur con classi rigorosamente a sessi separati fin dalla prima elementare, qualcosa riuscivo a combinare, anche se meno di quel che avrei voluto.
Se mi avessero chiesto se ero felice avrei risposto di no, come tutti gli adolescenti, credo, ma col senno di poi invece dico sì. Se la felicità consiste nell’essere contenti di se stessi e di ciò che si riesce a fare, io ero felice.
Poi sono cominciati i guai. 
Esattamente nel 1973.

lunedì 3 agosto 2015

Dio non s'incazza



    Era stata una giornata difficile. Non tremenda, ma noiosa, stitica, inferiore alle aspettative. Che non dovrebbero esserci ma ci sono e fanno male quando non si realizzano. Niente di grave, però, che di giornate così ne avevo avute tante altre e di ben peggiori anche, solo che, dopo il weekend in cui avevo lavorato come al solito dall’alba al tramonto senza soluzione di continuità, ero scarico, nervoso, prossimo allo sclero.
    Lo sapevo bene io per primo.
Temevo che, una volta arrivato a casa, avrei potuto prendermela con qualcuno che aveva la sola colpa di essermi vicino nel momento sbagliato (ebbene sì, anche questo a volte faccio, anche se so benissimo che non dovrei). E a casa c’era mia moglie che aveva avuto una giornata ben peggiore della mia e non l’avrebbe per niente meritato. Così mi sono fatto un bel discorso tra me e me. Mi sono detto: calmati, in fin dei conti non è successo niente di così grave, incazzarsi non serve a niente e prendersela con chi non se lo merita ancora meno. E mi sembrava di avercela fatta.
    Poi ho chiuso il negozio lasciando all’interno le chiavi del motorino. E anche qui mi son detto: calma, può succedere, è già successo altre volte (un po’ troppe in verità) e succederà ancora. Ho quindi riaperto la serranda, disinserito l’antifurto, preso le chiavi, rimesso l’antifurto e richiuso la serranda. Senza sclerare.
    Poi sono entrato in banca. Anzi, nell’anticamera della banca, dove c’è il bancomat in cui inserisco i soldi e gli assegni dell’incasso. Era in funzione, cosa non scontata, e funzionava anche l’inserimento dei contanti, altra cosa non scontata. Sono quindi riuscito fare il mio deposito senza eccessivi intoppi.
    Ma poi mi è saltato in mente di chiedere anche la lista movimenti, in modo da verificare un po’ gli stessi e, soprattutto, il mio saldo. E qui, alla seconda volta che mi appariva la maledetta pubblicità del maledetto telepass gratuito per sei maledetti mesi in offerta speciale per i maledettissimi clienti della banca stessa, pubblicità che rimane a rompere i coglioni per trenta secondi buoni anche quando fa un caldo pazzesco, mi sono scappati i cavalli.
    Ho tirato un porcoddio di una tal forza che se non è scattato l’allarme della banca è stato solo perché, probabilmente, per qualche motivo, non era inserito. Una cosa assurda. Un urlo esagerato da far male alle tonsille. Una cosa che, se è vero che la bestemmia è reato, sarebbe stato da galera sicura. Una cosa che, se mi avessero sentito i clienti che avevo servito fino a pochi instanti prima con la maggior gentilezza possibile (e che alcuni dicono non esser poi granché ma sono solo malelingue) non avrebbero probabilmente più rimesso piede nel mio negozio. Una cosa fuori da ogni logica. Sproporzionata al momento e all’accaduto.
   Ma ci voleva. Perdio se ci voleva! Mi sono sentito immediatamente meglio. Il furore si è tramutato in grinta, l’impazienza in determinazione. Ero di nuovo io. Ancora incazzato ma non più furibondo. Ancora cattivo, del resto il sangue non è acqua e il carattere nemmeno, ma più gestibile, controllabile, organizzabile. Non ho nemmeno picchiato mia moglie, una volta rientrato, e nemmeno mio figlio, anche perché le prenderei.

   E allora, gente, la mia conclusione è questa: bestemmiate quando ce n’è bisogno. Bestemmiate pure senza ritegno. Magari se non c’è nessuno nei dintorni, meglio, ma, alla più brutta, piuttosto di scoppiare, anche se c’è qualcun altro va bene lo stesso. Non è vero che non serve. Serve eccome! Serve a buttar fuori il veleno che, se vi rimane dentro, fa male a voi e vi fa diventare più cattivi. Paradossalmente una bestemmia ben detta, cioè non sprecata o tirata a vanvera o per abitudine, vi salva la vita e magari vi evita pure l’inferno, se fate tanto da esser credenti.
    Perché, infatti, non dovrebbe andare in paradiso una persona di buon cuore che tira qualche porco di tanto in tanto, quand’è esasperata o quando la situazione lo richiede? Quando, come si dice, te le strappano dalle budella? Secondo me l’inferno è pieno zeppo di gente che non bestemmia ma, magari anche per questo, è più piena di rabbia, di odio, di livore e di rancore. E quindi si comporta peggio.
    E poi cos’è questa storia del non nominare il nome di dio invano? E invano cosa vuol dire? Invano è quanto di più soggettivo ci possa essere. Ciò che è invano per me magari non lo è per te o per gli altri o gli altri ancora. E viceversa. Tra l’altro non nominare il nome di dio invano, se è vero che i comandamenti li ha scritti dio stesso, è un segno di permalosità e insofferenza. Cosa che non gli farebbe molto onore.
    No, io non credo in dio, ma mi piace pensare che, se un dio ci fosse, non gli starebbe sui coglioni chi lo bestemmia, ma chi fa del male. A se stesso o agli altri. Consapevolmente o meno. Cosa volete che gl’importi se qualcuno lo nomina impropriamente o lo insulta addirittura quand’è alterato? Entrambe le cose, in fondo, sono un segno d’amore o comunque almeno di riconoscimento. Sempre meglio dell’indifferenza assoluta che gli riservano molti cosiddetti credenti.
    Se poi invece ho ragione io e non c’è, beh, allora, perché mai si dovrebbe incazzare?