Continua
la maledizione della prima volta:
ogni cosa
che faccio sembra destinata ad andar storta.
Nel
duemilatre mi serviva un anno normale
(ero
entrato nell’avicoltura imprenditoriale)
ed è
arrivata un’afa indecente, una calura
insopportabile,
mai vista così lunga e dura,
che si è
portata via ogni progetto, breve o a distanza,
nella più
grande, finora mai vista,
d’animali
ed umani, mattanza.
Da quelle ceneri
son poi rinato e ritornato in pista
pagando il
prezzo più salato e ingiusto
quello del
ridimensionamento e dello strame:
tornare ad
ubbidire a gente infame
immorale e
senza gusto.
Era il
duemilacinque, avevo quarantottanni
un sacco
di chilometri, le ossa rotte
e molti,
troppi problemi e affanni
per
compiacere all’infinito qualche farabutto.
Durò sei anni,
anche troppi, ed eccomi qua
paperino
incazzoso ed eterna fenice
che tra
Voltaire, Schopenhauer e Nietzsche
sconta, degli
uomini e il fato, l’ostilità.
Ma se dei
simili ho fatto ragione
della
sorte non digerisco l’eterna avversione,
ecco
perché voglio verificare
se dopo l’ennesima
polvere ci sarà un qualche altare
o se questo
duemilatredici sarà
l’anno più
freddo e piovoso da qualche secolo in qua
visto che
dopo aver perso il mio vecchio mestiere
mi son dovuto
inventare barman e gelatiere!
Se così
fosse, e temo sarà,
a costo
d’essere ateo blasfemo
lancerò in
alto col mio urlo estremo
l’esecrazione
alla divinità
e in
veronese stretto ed osceno
io dirò: «
Basta, lasciami in pace,
la bruta vaca
che t’ha cagà.»